Per Sara Dell’Onze che fu rapita da una Secchia
La secchia rapita, del Tassone cavalier Alessandro, è capolavoro arcinoto, almeno nelle terre che istagnano tra ’l Lavino e ’l Panàro (il Secchia qui non c’entra), d’una barocca, e per dovunque arzigogolata, traccia di confine – o anche vena, per non dire arteria – tragicomica o eroicomica sulla qual s’attesta il meglio che da parte sua, con generosità, ci porge la scrittura poetica italiana. E in ciò dico, per bontà loro: dall’Ariosto, niente di piú che burlesco inventor d’equestri precipízi, di panzane esilaranti, ancor se dette in dicitura somma, ovver di senni nobili (e talora ignobili) che si sperdono per lo spazio cosmico vagamente tolemaico, fino al gran Lombardo, Gaddus, Carlo Emilio, sepensante baggianòne eidetico e faceto, ma finissimo arrovellatore di ingegnose (va da sé: era ingegnere) trovate press’a che pazzoidi, a livello di “narratum” non di meno che di “narratura”, capaci d’attingere le forme sufficienti per assurgere alla (letteraria) verità massima di tutto il Novecento. E occorre dire che la secchia è secca, anche se barocca, ossia è legnosa e icastica, assai dura nella sua substantia poco adamantina, di poema beffardo e irriguardoso, tanto da asseverarsi come una vera e propria (immane in che ben architettata) cattura “per li fondelli”: e dell’epica guerresca, e delli eroi imperituri, e della priapesca smania d’auliche scene che il gusto clericale intimava allora come le sole degne della nomea (sacra, non da sagra) dell’arte. Fu pubblicata a Lutetia Parisiorum (1621) non a caso…
Cosí, le raffigurazioni che Sara Dell’Onze le dedica ora, alla Secchia rapita, in questa nostra precipua circostanza di celebrazioni postume e continovative – che lei opportunamente iscrive, le raffigurazioni intendo, nei cloisonnes di un fondo circolare che non è cornice ma proprio “fondo” (il fondo del recipiente, com’è giusto, il “fondello” ovverossia) – ripropongono di quella secchezza ultimativa il tono e il gusto, anche il retrogusto un poco guasto, i quali, a mio modesto modo di sentire, non son lungi da quegli che ispirarono d’antan il Pierpaolo nazionale, e di lí a poco il suo allievo, il Bertolucci, per il film della Comare secca (1962), e cioè – ecco ancora la grande risata transistorica e antipetrarchesca – dalli effetti del sontuoso Gioachino romanaccio (Belli):
…e già la Commaraccia secca de strada Giulia arza er rampino.
La Dell’Onze ha in effetti travagliato in guisa di poetessa nova et arcaica in un sol fatto, su una sua idea (o lignea) di aggiramento grafico duro, aggressivo e furioso, che non ha da produrre i resultati dell’illustrazione, ossia – prima di tutto – che non ha da essere rappresentazione (re-praesentatio, ripresentazione, duplicatio), e che muove invece – au contraire! – da una devianza esegetico-ermeneutica, nella rete di un delirio tutto proprio, avvitato su se stesso, circolare, segnico e ideale, e da una sublimata suprema irrisione, che dell’opera coglie sí la linfa, e sopra l’opera fa di certo leva, ma solo per tradirla, o misinterpretarla, e perfino – come assai garberebbe al suo autore, al Tassoni dico, a lui in persona, s’ei fusse qui tra noi! – per farla bruciare nel fuoco di una ironia abrasiva quanto quella che la generò.
Le immagini di Sara sono dunque immagini-parole, che delle parole hanno infatti il graffio, la puntuta arroganza, l’incisione simbolica e ideografica, e come le parole parlano, ossia affabulano, ossia “dicono” al di là di ciò che “dicono”. Occorre riguatarle come in un abisso (l’abisso della secchia, per chi vi si sporge e fa dell’orlo suo un traguardo dritt’all’occhio, o ponendo il viso sul suo viso – visum, ciò che è lecito vedere), come per mozione o pulsione voyeristica, come dint’al cannocchiale che del voyer è istromento inderogabile. E sono immagini-parole proprio nel senso che il senso aprono (spalancano) al di là delle chiusure della mimesis, la quale, abolendo il simbolico, non può negare e non può mentire.
Sara stessa ci avverte che per lei non si trattava di illustrare, appunto, ovvero completare il tassoneggiante paese perifrastico (e iperbolico) carezzato dalle ottave della Secchia, in certo modo con esso competendo, ma piuttosto di immaginare oltre, aprendo a sguardo (proprio e altrui) orizzonti fantastici e ulteriori, ad oltranza.
L’immagine è chiusura – decretava il Derrida – laddove, nel supino accoglimento dell’iconismo, e quindi del principio tassonomico della somiglianza, fragile si dispone a patir lo stupro della rappresentazione, che è feroce dominio del pensiero esatto, coincidente: corpo per calco, membro per guaina (vaginale), conferma e infinito ripasso, a stantuffo, del sempre uguale. Ma l’immagine può farsi invece apertura laddove sappia acquisire e far valere una sua difficile e perfino disperata – senza dubbio per l’artista disperante – declinazione simbolica, tale da sottrarla all’inganno della mimesis e alla (presunta in quanto facilmente presumibile) banale natura naturale, e da proiettarla insomma fuor dall’iconismo dei segni con-causati, per istigarla (piuttosto) verso le suggestionate eteree regioni della risonanza evocativa, della cauta allusione, della scintilla analogica… quella che scocca tra gli elettrodi della cosí detta poesia.
Ed è questo il tentativo – anche la trappola! – che la Dell’Onze ha per noi allestito, lasciandoci ovviamente il diritto (oltre che il dovere) di riconoscerlo e di salutarlo.
Sandro Sproccati
(maggio 2011)